di Liliana Adamo

Diciamocelo francamente: se il ministro Pecoraro Scanio pone al centro della dibattuta manovra economica i 600 milioni d’euro come primo rimedio per diminuire le emissioni di gas serra,oltre che una rinnovata prassi legislativa per recuperare la situazione drammatica del nostro paese in materia di politiche ambientali, allora arriviamo a credergli quando dichiara (su Il Riformista) “che bisogna pensare al Protocollo di Kyoto come alla nostra nuova Maastricht”. Sul serio, se questo governo dimostrasse un’assunzione di responsabilità al rispetto dei limiti sulle emissioni d’anidride carbonica, con uguale ostinazione mostrata al rapporto tra deficit e Pil, sotto la soglia del 3%, si tasterebbe il polso ad una causa altrettanto vitale, varrebbe a dire: abbiamo fatto la finanziaria per “Maastricht”, adesso facciamo la finanziaria per “Kyoto”, o meglio, per citare tout court il ministro all’Ambiente, “la finanziaria del clima”. Durante il meeting sulle nuove politiche energetiche tenuto di recente a Bruxelles, ai nostri rappresentanti non sono stati risparmiati giudizi impietosi, per non dire vere e proprie strapazzate da parte dei membri della Commissione Europea, tali da far pensare che, per l’Italia, al prossimo appuntamento, non ci saranno scusanti: colpevoli d’aver accumulato inammissibili lentezze nell’attuazione degli impegni assunti con la ratifica del Protocollo, pare che i signori abbiano accusato il colpo. Uomini d’istituzioni e manager che sulla carta propongono eminenti piani di lavoro, all’altezza di qualsivoglia “battaglia sull’ambiente”, in concreto non hanno mosso un dito per consolidare le novità in campo energetico e strutturale, oppure incoraggiare la creazione di un team congiunto di studiosi e climatologi, che abbiano mezzi e facoltà per fornire analisi ed indicazioni, per affrontare i cambiamenti climatici, per lavorare a stretto contatto con le composite realtà ambientali e con le emergenze che, da nord a sud, si riversano sul nostro territorio; iniziative già collaudate altrove (in Gran Bretagna e persino negli Stati Uniti). Sono questi i motivi basilari che non aiutano la tutela delle nostre nicchie ecologiche e spingono la qualità degli interventi in tal senso, agli ultimi posti in classifica.

Nuovi modelli di cultura provengono da paesi come la Germania e dai paesi del nord Europa (eccezion fatta per i paesi dell’est), in Italia, per esempio, si realizza soltanto il 70% dei progetti eolici, a denunciarlo è il presidente dell’Anev (associazione nazionale dell’energia e del vento); non basta un nulla osta del governo affinché le buone idee si trasformino in propositi attuabili: l’energia rinnovabile stenta a decollare, non si avvale di un sistema concorrenziale con quel “limitato” potenziale eolico stimato dall’Enea a 10mila MW. Al contrario, gli altri paesi europei che hanno investito sull’energia rinnovabile (non solo eolica, ma anche solare, idrica e geotermica), stanno beneficiando di un piano di lavoro lungimirante e di un mercato fiorente; in Germania, sono predisposti 200 metri di pannelli per residente rispetto ai 4 in Italia, con imprese (circa 5000), che danno lavoro a 25 mila persone e fatturano due miliardi d’euro l’anno. Questione culturale, pelandronismo e ristrettezza di vedute attivano il freno sugli investimenti in campo energetico, fattori che riconosciamo ormai nella normalizzazione nazionale e che non solo non ci consentono aria pulita e meno emissioni, ma non ci consentono altresì di rilanciare la nostra economia.

Un impulso è stato nel cosiddetto “conto energia”, un sistema adottato da quei paesi europei in grado di sostenere investimenti consistenti nel fotovoltaico (i classici pannelli solari). Nel settembre del 2005 l’Italia si è accodata proponendo incentivi per l’installazione, ma presumendo che un “soggetto privato” si accollasse a proprie spese l’intero impianto, vendendo l’energia prodotta al proprio gestore. A quanto ammontava la quota? Ad un importo maggiorato di 45 centesimi per kilowattora, rispetto all’entità praticata dalla stessa azienda per la fornitura. Cos’è accaduto? Nulla. Nello stesso anno, secondo la IEA (Agenzia Internazionale per l’Energia), la percentuale italiana per la potenza fotovoltaica è crollata all’1%, mentre in Germania è aumentata del 39%. Controversie ed incongruenze hanno determinato il fallimento del fotovoltaico: un decreto stabiliva un tetto massimo di potenza complessiva da installare, pari a 100 megawatt, a fronte delle 1500 Mw per le dodicimila domande presentate al Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale. Soltanto un’esigua minoranza (1800) di queste richieste ha avuto successo ed incentivi statali e, tuttavia, anche per l’energia alternativa, pare che le cose si risolvano “all’italiana”; i pochi “fortunati” sono passati attraverso ordite speculazioni e turbative d’asta, in altre parole, potenze ed incentivi sono stati concessi attraverso un sistema d’aste trimestrali, di fatto, poco trasparenti.

Erroneamente, si ha la convinzione che un deciso cambio di rotta in campo energetico rappresenti una riconversione troppo dispendiosa e perciò inattuabile (ma riflettiamo sui costi del petrolio). In realtà non c’è penuria di fondi, ma una pessima gestione di fondi, noi stessi devolviamo il 7% d’ogni bolletta sul consumo elettrico (vedi la voce A3), per investire sulla “Costruzione impianti fonti rinnovabili”; se aggiungiamo alle “fonti rinnovabili” quelle “assimilabili”, vale a dire fonti che utilizzano energia elettrica dagli scarti industriali come emissioni di scarico, gasolio di recupero e così via, allora circa 50 miliardi d’euro finiscono nelle tasche delle compagnie petrolifere italiane nello stesso momento in cui ci fanno credere d’aver sostenuto l’incremento delle fonti sostenibili!

Riscaldamento globale? A questo punto, tangibile…

Il nostro è tra i paesi europei più esposti ai guasti provocati dai mutamenti climatici, preoccupanti per l’Italia (e per la morfologia molto fragile del suo territorio) sono alluvioni, desertificazione, siccità, aumento del livello del mare lungo le coste, dislivelli stagionali, dissipazioni delle rare zone umide mantenutesi e picchi di condizioni termiche troppo elevate durante le estati. Lungi dal considerare protetto il nostro paese dopo le speculazioni e il saccheggio avvenuti sistematicamente tra gli anni sessanta e settanta, da successive politiche devastanti che hanno spogliato il paesaggio e rovinato inesorabilmente il nostro habitat naturalistico, ci si trova, oggi, a fare i conti con quel che ci attende nel prossimo futuro. Contenere le emissioni d’anidride carbonica, principali responsabili dell’effetto serra, con l’obiettivo preponderante di rincorrere i vincoli imposti dal protocollo di Kyoto, è, da subito, una priorità.

Il ritardo accumulato, che tanto ha fatto saltare i nervi ai membri del parlamento europeo, suggerisce un “disavanzo ambientale” notevole: tra il 2008 e il 2012, l’Italia avrebbe dovuto ridurre le emissioni perlomeno del 6,5%, rispetto ai livelli del 1990, all’opposto, le emissioni sono aumentate del 13%; se non bastasse, la Commissione europea ha sfoggiato al naso dei nostri rappresentanti, un rapporto (tra l’altro, già anticipato dal WWF), che comprova il nulla assoluto all’incentivare energie rinnovabili, inscindibile prologo per allinearsi al protocollo. Come abbiamo visto, dal 1997 ad oggi, l’input è diminuito invece che aumentare, non solo siamo lontani dagli standard europei, ma, di questo passo, non sarà attuabile l’obiettivo di raggiungere il 25% d’energie rinnovabili funzionanti su tutto il territorio nazionale entro il 2010.

La legge finanziaria 2007, cerca disperatamente di correre ai ripari: misure e stanziamenti appaiono consistenti, per “Kyoto” è previsto l’istituzione di un fondo che dovrebbe attivare misure a catena (una rete di finanziamenti per svariati miliardi d’euro) per ridurre le emissioni nocive, una risorsa non irrisoria, ammontante a 600 milioni d’euro da erogare tra il 2007 e il 2009; previsto anche uno stanziamento di 75 milioni d’euro nell’arco di tre anni per contribuire all’educazione, l’informazione e la cooperazione internazionale sulle problematiche climatiche ed ambientali e per rendere ricettivo il risparmio energetico. Ancora, in tre anni saranno devoluti 730 milioni d’euro per mettere in stato di sicurezza il nostro territorio, 265 milioni per la bonifica di siti inquinati, 208 milioni per la tutela di parchi ed aree protette, infine, previsti 9 milioni in più rispetto al precedente budget, per lo smantellamento dei cosiddetti eco-mostri edificati abusivamente nelle aree protette.

Una novità in finanziaria consiste nel ”principio di rivalsa”, da parte dello Stato, agli enti locali che non dimostreranno adempienza alle norme europee in fatto d’inquinamento. La tutela da parte delle forze dell’ordine e da un ente strutturato per la lotta all’eco-mafie, sarà consolidata. Previsti, inoltre, altri 270 milioni d’euro in tre anni, per interventi a livello urbanistico con la presunta “mobilità sostenibile” (se ne parla da anni ma, di concreto, poco o nulla accade) e vincoli più severi per la raccolta differenziata dei rifiuti, gli organi esecutivi delle Regioni saranno tenuti a garantirne il 40% entro il 2007, il 50% entro il 2009, il 60% entro il 2011.

In pratica, nuove misure dovrebbero contribuire a migliorare in maniera apprezzabile la nostra condizione ambientale e, di conseguenza, fornire comparazioni anche in campo economico e al risparmio per ogni singolo fruitore; queste che enumeriamo sono tra le più innovative:

1 Un fondo per l’incentivazione d’edifici ad altissima efficienza energetica.

2 Agevolazioni fiscali per la riqualificazione energetica degli edifici.

3 Contributi all’acquisto di frigoriferi ad alta efficienza con detrazioni fiscali fino a 200 euro per ogni elettrodomestico acquistato nel 2007.

4 Interventi sulla fiscalità energetica per fini sociali.

5 Incentivi per comprare auto ecologiche e rimuovere auto inquinanti.

6 Agevolazioni fiscali per chi dà la preferenza a lampade fluorescenti.

7 Impulsi ed incentivazioni ai carburanti eco-compatibili.


Certificazione energetica e detrazione del 55%.

Per la riduzione allo spreco, la voce in finanziaria più in auge, è la cosiddetta “certificazione energetica”, il documento attestante i consumi complessivi di un edificio. Con questa prassi è possibile capire in che misura è compatibile con l’ambiente, l’edificio nel quale abitiamo, o lavoriamo. La certificazione (inserita mediante decreto ministeriale e redatta da “soggetti terzi”), al momento, non si presenta “costrittiva”, nel senso che non obbliga ad interventi immediati per gli edifici ad alto consumo energetico. Ma ciò non toglie che la “certificazione energetica” si trasformerà in una consuetudine per il futuro, per l’acquisto di un immobile o per rendere favorevoli i luoghi di lavoro. Vorrà dire, che anche la “qualità energetica” influirà sul mercato immobiliare, costituendo il “valore aggiunto” di un qualsiasi immobile per vivere o lavorare.

Fin dall’ottobre scorso, un decreto legge prevedeva un prototipo di questa certificazione, estesa a tutti gli edifici, anche i più vecchi. Uno scadenziario progressivo avrebbe esaminato tutti i fabbricati presenti sul nostro territorio, ciascuno con la propria attestazione fino al luglio del 2009, con l’obiettivo di convergere ad una riduzione dei consumi e incrementare la produzione d’energia fotovoltaica.

In conclusione (e ci aspettiamo non solo in script), la finanziaria induce noi tutti al rilancio di una nuova mentalità sulle gestioni delle risorse; importanti anche le partecipazioni alle ristrutturazioni degli edifici per tetti, finestre, pareti e caldaie, che permettono una detrazione del 55% nell’arco di tre anni e non in intervalli prolungati (ad esempio in 10 anni!). Ciò comporta un risparmio e un incentivo reali, rendendoci psicologicamente inclini ad attuare un progetto collettivo, raggiungere culturalmente gli standard europei e ravvicinarci a “Kyoto”.










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